Yoga a Genova

Raja Yoga – Yoga Sutra

“La grande intuizione del pensiero hindù è stata quella della pratica della meditazione, con la quale è possibile afferrare quelle verità che sfuggirebbero alla mera analisi razionale, filosofica e intellettuale. Con la meditazione, infatti, ci s’immerge in quella realtà che trascende il livello delle esperienze fisiche e dell’intelletto e si sperimentano più ampi livelli di coscienza e di consapevolezza. I pochi decenni vissuti su questo meraviglioso pianeta devonon essere ben utilizzati al fine di poter indagare le nostre potenzialità e sperimentare le profonde verità che giacciono nascoste nel nostro cuore” (dal libro: “Raja Yoga” di Walter Froldi).

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Il Raja Yoga, lo yoga che si occupa della crescita interiore e spirituale dell’individuo, compiutamente esposto negli Yoga Sutra di Patanjali, non lascia spazio ad aride discussioni filosofiche, ma pone l’accento sulla necessità di realizzare nella pratica, nella meditazione e nella vita, la nostra essenza, il Purusha. Il suo obiettivo è quello di aiutarci a superare la condizione umana legata all’illusione, all’ignoranza della propria vera natura, per sperimentare la maturazione e l’espansione della coscienza.

ESERCIZIO COSTANTE E NON ATTACCAMENTO

Parliamo di “Citta vritti”, questo grosso problema che abbiamo tutti quanti, le continue onde mentali che increspano il lago della mente, che minano la nostra tranquillità, che la pratica del Raja yoga si propone di placare per poter sperimentare Ananda, la beatitudine del Sé.
Patanjali negli Yoga Sutra sostiene che “L’immobilità delle modificazioni mentali, la pace interiore, si ottiene mediante l’esercizio costante e il non attaccamento”.
In prima istanza Patanjiali sostiene che è importante placare queste modificazioni della mente (Citta Vrittis), se vogliamo sperimentare la pace e la felicità nella profonda meditazione, poi ci dice come si può fare: “L’esercizio costante”.

Chi pratica yoga da un po’ di tempo ne capisce l’importanza. Agli inizi tutto è molto affascinante, però col passare dei mesi o degli anni questo fascino si affievolisce, trasformandosi in abitudine, e allora si finisce col seguire il sentiero dello yoga con poco entusiasmo.
Patanjali suggerisce “l’esercizio costante”, cioè non una pratica giornaliera meccanica, ma il mantenere vivo nel tempo il nostro amore verso la ricerca, e questo non è facile; ognuno deve trovare il suo modo per non inaridirsi, per non cadere vittima di una pratica meccanica ed esteriore.

L’altro punto è il “non attaccamento”. Tutti noi pratichiamo yoga per avere qualche cosa in cambio: chi vuole un corpo più elastico o più sano, chi vuole rilassarsi, chi vuole dormire meglio, chi vuole curare qualche piccola problematica fisica, o conoscersi meglio.

Il giusto metodo di praticare lo yoga è il non attaccamento. La pratica dello yoga ha a che fare con l’ego, essa ci aiuta a trascendere il nostro piccolo io. Non devo cioè aspettarmi alcun risultato, tutta la mia soddisfazione deve stare nel mio tappetino e nella mia pratica. Se riesco a entrare in quest’ordine di idee, lentamente il mio ego si ritira; è come una bilancia: più l’ego scende più sale la parte nascosta di me, l’atman, e allora compariranno risultati che non ho mai cercato, superiori ad ogni aspettativa.
Ecco perche Patanjali parla di esercizio costante e non attaccamento, due condizioni fondamentali della nostra pratica di yoga mentale.
Alcune persone che praticano yoga sono ansiose di scoprire sempre nuove tecniche, di correre da un insegnante ad un altro e da un maestro ad un altro, nell’illusione di placare la loro sete di novità. Ma allora, qual è la tecnica “segreta” che finalmente ci appagherà definitivamente nella nostra ricerca? Qual è quella tecnica di meditazione che, una volta conosciuta, placherà la nostra mente irrequieta?

La Tecnica più importante siamo noi, è la nostra coscienza quando essa è libera dai condizionamenti esterni ed interni, dalle ansie, dagli egoismi.

Il giorno che capirò che quest’asana banale e consueta, quella che utilizzo da molto tempo, qualche volta meccanicamente, se praticata senza seguire i movimenti della mente conscia (intelletto), è in grado di aprirmi una porta sull’Universo dentro di me, allora essa sarà così appagante che non sentirò più la necessità di una continua e caotica ricerca esteriore.
Ognuno di noi deve imparare a diventare maestro di se stesso per scoprire la sua pratica personale, il suo segreto personale
Possiamo rendere, con la nostra attitudine mentale, la nostra pratica banale o sublime, meccanica o consapevole, e trasformare il nostro stato di coscienza, per sperimentare davvero la beatitudine interiore, la vera felicità (ananda).

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